Commento al Vangelo
Domenica 8 settembre
Liturgia: Sap 9, 13-18; Sal 89; Fm 1, 9-10.12-17; Lc 14, 25-33In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
olui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro".
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
All'inizio c'è una folla che gli andava appresso e alla fine è il singolo discepolo dinanzi alla scelta di lasciare tutto per abbraccia una croce. Se lo fa uno, c'è speranza che da quello stampo ne vengano molti. Gesù cammina avanti e parla a chi gli viene dietro: questa è l'immagine del maestro e del discepolo, di un cammino dietro qualcuno che fa la strada.
Per costruire una torre servono molti mezzi e per vincere una guerra ci vuole un grande esercito con mezzi e uomini. La sequela di Gesù non è cosa da poco: somiglia a un grattacielo; è una vera e propria battaglia da vincere. Eppure, per questa grande impresa, secondo la logica del Vangelo che rovescia la nostra, per riuscire bisogna perdere, per ottenere occorre lasciare, per costruire bisogna rinunciare a tutto ciò che si ha. Il motivo è semplice: solo così si dipende in modo assoluto da Dio. Era già accaduto a Gedeone, il re guerriero che combatté contro i Madianiti. Dio gli fece ridurre drasticamente il numero dei combattenti, da trentaduemila a trecento, per affidarsi solo dalla protezione di Dio.
Prendere la croce è desiderare e compiere la volontà del Padre, non la nostra, posporre l'amore per i parenti a quello per Dio, rinunciando ad ogni appoggio umano, anche quello di sangue. Solo Dio. Molto presto arriva una pienezza di vita, una ricchezza straordinaria, una familiarità con tanti. Il centuplo è la misura di paragone.
La croce buona da portare è quella degli umili e obbedienti discepoli del Signore, che vivono il comandamento dell'amore e che, seduti alla mensa del Signore, hanno il cuore colmo di pace. La Parola di Dio è profonda e vi si entra a fondo vivendo la Pasqua di Gesù, il nostro morire e risorgere in Lui. Bisogna ogni giorno far morire - questo è il senso dell'odiare! - tutto perché tutto risorga nel Signore.
Gesù sta salendo verso Gerusalemme e con lui ci sono molti poveri. La povertà interiore permette di amarlo con tutto il cuore e di rinnovare, in lui, tutte le cose e le persone. Se ci spaventa la radicalità del Vangelo, dobbiamo pensare che non si tratta di fare castelli di sabbia, ma di costruire torri, di combattere e vincere guerre impossibili.
Mons Angelo Sceppacerca8 settembre 2019