Parole vibranti e profonde pronunciate dal Vescovo Claudio durante l'omelia della cerimonia dell'inizio del suo ministero pastorale in Diocesi: "...Secondo quanto Cristo oggi ci insegna, continuiamo il nostro cammino cristiano e cattolico in questa plurisecolare gloriosa porzione di Chiesa, che è la nostra chiesa diocesana triventina -che questa sera prendo in sposa- amando Dio, amando gli uomini, amando tutti e allo stesso modo, amando sempre, accettandosi così come ci si riconosce, con meriti, forse pochi, e carenze, forse molteplici, con virtù e difetti, con desideri e delusioni, con vittorie e sconfitte, con amici e non, con ansia e timore, con sforzi e debolezze, nel posto che Dio ci ha assegnato attraverso l’intreccio degli umani avvenimenti e con quella feriale fedeltà, talvolta così poco gloriosa ed entusiasmante, che si connota nelle mille pronte risposte ai doveri quotidiani, sempre assillanti, raramente esaltanti, sovente faticosi e debilitanti, ripetendo in ogni momento, con la consapevolezza dell’uomo libero e fedele: “Sia fatta la tua volontà, o Padre”, e giocando, su questo semplice ma profondo atteggiamento del nostro spirito, illuminato dalla fede, la nostra chiamata alla santità, la nostra autentica testimonianza, mai paghi per quanto abbiamo fatto e sempre santamente insoddisfatti, inquieti e ansiosi per la causa del Vangelo e il bene delle anime".
Carissimi fratelli e sorelle qui presenti e convenuti da diversi luoghi, autorità, uomini e donne di buona volontà, miei cari sacerdoti, religiosi e religiose, diaconi, seminaristi e fedeli laici tutti della Chiesa Triventina.
La parola di Dio di questa XXV domenica del Tempo Ordinario, appena iniziata, immediatamente al termine della memoria liturgica con cui abbiamo festeggiato San Pio da Pietrelcina, prende inizio dal noto oracolo che il Signore Dio pronunzia per bocca del profeta Isaia (Is 55, 6-9), oracolo che risuona sempre potente nell’animo di chiunque lo ascolta: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie... Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie» (Is 55,9). Proprio questo oracolo ci introduce alla retta comprensione del comportamento del padrone della vigna, di cui abbiamo appena sentito nel Vangelo. Comportamento a dir poco strano, o irrazionale, che ci farebbe schierare dalla parte dei lavoratori chiamati fin dalla prima ora, se guardato dal punto di vista puramente socio-economico-amministrativo e sindacale, stante anche il rincaro della dose che Gesù stesso fa al termine del brano: «Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi». Da un punto di vista teologico-spirituale, invece, la parabola del padrone della vigna trova proprio nel contrasto “primi-ultimi” il suo più vero e recondito significato.
Nella parabola di Gesù possiamo vedere i due fuochi, due vertici: da una parte l’arruolamento progressivo degli operai, ma trattati con identico salario; dall’altra l’indignazione polemica dei “primi” assunti. I “primi” (i “giusti”, o i “farisei”) sono letteralmente scandalizzati dal fatto che Gesù offra la stessa salvezza anche agli “ultimi” (i peccatori). Proprio così. Motivo della lamentela dei primi assunti a giornata non è per un salario maggiore, ma è l’uguaglianza del trattamento riservato tanto ai “primi” quanto agli “ultimi” arrivati. Perché dare la stessa paga di una intera giornata a chi ha fatto soltanto un’ora di lavoro? Portavoce di questi lavoratori della prima ora del vangelo di Matteo avrebbe potuto essere anche il primogenito della cosiddetta parabola del “figliuol prodigo” che leggiamo nel vangelo di Luca, primogenito che, ricorderete, rivolto al padre, il quale ha accolto il secondogenito maldestro, recrimina amaramente dicendo: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (Lc 15, 29-30). È questo il vero motivo del «mormorare» verbo che, come è noto, nella Bibbia indica la mancanza di fede. Mormora chi non ha fede. Mormorano, purtroppo anche oggi, quanti non vedono nel volto di Gesù quello stesso del Padre!
Gesù intende avallare simili comportamenti immorali, o uno stile di vita corrotto, o, addirittura, scardinare i rapporti di giustizia che devono esistere nell’ambito del lavoro? Al catechismo ci è stato insegnato che uno dei peccati che grida vendetta al cospetto di Dio è la frode nella giusta mercede agli operai. Di certo il Signore, che è Via, Verità e Vita, non può intendere e volere tutto questo! Allora qual è il valore dell’esempio paradossale proposto oggi da Gesù? La risposta potremmo trovarla già nel vangelo di domenica scorsa, dove, ricorderete certamente, la parabola, sempre dal vangelo di Matteo (Mt 18,21-35), opponeva il condono di un debito astronomico (diecimila talenti /erano 55 milioni di vecchie lire in oro), da parte di un padrone, alla meschinità del debitore che, da parte sua, dimentico di quanto appena prima gli era stato condonato, esigeva da un collega l’applicazione rigida della giustizia con la restituzione di un debito modestissimo (cento denari): «... e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi!».
Molto probabilmente, attingendo dall’esperienza di proteste similari di lavoratori presi a giornata, ma per far balenare i tratti dei farisei e del giudaismo più rigido e “osservante”, per i quali la religione era quasi come un rapporto economico da regolare secondo criteri di giustizia –più si fatica nell’osservare la Legge, più si “guadagna” la vita eterna- Gesù intende colpire, con questo suo messaggio, classico nella sua predicazione, quanti si scandalizzano per l’apertura del Regno di Dio e del Vangelo ai peccatori, agli umili, agli ultimi.
In dissolvenza, però, è sottintesa anche un’altra questione, molto viva e dibattuta nella prima Chiesa, come sappiamo, cioè l’apertura universale a tutti i popoli e a tutte le culture. Nella Chiesa delle origini voler parificare pagani e giudei, giusti e peccatori, per assumere lo stile di Gesù, identico per tutti, era come voler inferire una ferita a certi privilegi e logiche umane che ritenevano la salvezza un patrimonio socio-culturale. Solo per pochi. Solo per una nazione. La posta in gioco era davvero alta: l’antica alleanza, basata sul diritto e sulla giustizia, come già annunziato dai profeti, doveva ora aprirsi alla nuova alleanza, fondata sulla grazia e sul perdono. Come già nel vangelo di domenica scorsa, dove il perdonare settanta volte sette scardinava la vendetta del settantasette per Lamech, quinto discendente di Caino (Gn 4, 23-24).
Se, come ci è stato insegnato al catechismo, il Regno è un dono di Dio, ciò significa che esso non è una paga per le opere della legge. La salvezza non è una ricompensa da contratto di lavoro, ma è prima di tutto una iniziativa divina fatta di amore e di comunione: ognuno è invitato a parteciparvi con gioia e generosità seguendo lo stile del padrone della vigna/Gesù. Prima del merito e della giustizia viene la disponibilità di tutti e di ciascuno a lasciarsi conquistare dall’amore gratuito e generoso che dona e fa credito anche a chi non ha diritti da accampare.
Nel giorno solenne in cui un nuovo Pastore, l’ottantatreesimo, di una illustre cronologia episcopale, e il secondo molisano, siede, per divina elezione e per il beneplacito della Sede Apostolica, sulla Cattedra di San Casto nell’antichissima Terventum, dalla voce di Cristo stesso, unico, sommo, vero ed eterno Sacerdote e Pastore, raccogliamo, sempre docili e ben disposti, come chiesa locale, questo pressante invito del Vangelo ad una carità a vele spiegate: carità di sentimenti e di azione come perfetta imitazione del Padre celeste «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt. 5,45), i cui pensieri non sono i nostri pensieri e le cui vie non sono le nostre vie.
Secondo quanto Cristo oggi ci insegna, continuiamo il nostro cammino cristiano e cattolico in questa plurisecolare gloriosa porzione di Chiesa, che è la nostra chiesa diocesana triventina -che questa sera prendo in sposa- amando Dio, amando gli uomini, amando tutti e allo stesso modo, amando sempre, accettandosi così come ci si riconosce, con meriti, forse pochi, e carenze, forse molteplici, con virtù e difetti, con desideri e delusioni, con vittorie e sconfitte, con amici e non, con ansia e timore, con sforzi e debolezze, nel posto che Dio ci ha assegnato attraverso l’intreccio degli umani avvenimenti e con quella feriale fedeltà, talvolta così poco gloriosa ed entusiasmante, che si connota nelle mille pronte risposte ai doveri quotidiani, sempre assillanti, raramente esaltanti, sovente faticosi e debilitanti, ripetendo in ogni momento, con la consapevolezza dell’uomo libero e fedele: “Sia fatta la tua volontà, o Padre”, e giocando, su questo semplice ma profondo atteggiamento del nostro spirito, illuminato dalla fede, la nostra chiamata alla santità, la nostra autentica testimonianza, mai paghi per quanto abbiamo fatto e sempre santamente insoddisfatti, inquieti e ansiosi per la causa del Vangelo e il bene delle anime. La Messa non è finita –ha scritto don Tonino Bello- non andate in pace!
Papa Francesco, parlando ai Vescovi novelli ricevuti in Vaticano il 16 u.s., ha ricordato di ricordarsi che, entrando nelle loro chiese, essi, i Vescovi, il Cristo lo trovano già. Per la parola di Gesù di oggi e per quella del suo Vicario qui in terra, il nostro programma, che riprendiamo grati a Dio con rinnovato slancio, non sarà allora altro che quello di continuare il cammino “nuovi nella fedeltà e fedeli nella novità”, come amava ripetere un illustre professore e canonico teologo di questa nostra gloriosa Cattedrale, mantenendo viva, ogni giorno, la gioia dell’incominciamo adesso con il rimedio efficace di questa semplice preghiera del cuore: «Signore, aiutami oggi a fare di tutto cuore, quello che di tutto cuore oggi proprio non vorrei fare».
Le difficoltà legate al territorio, allo spopolamento, alla disoccupazione ed emigrazione, specie dei giovani, all’invecchiamento della popolazione, tra esigui tassi di natalità ed elevati indici di mortalità, per le quali la nostra diocesi in questi ultimi cinquant’anni ha perduto 74.142 abitanti (Cf. Rapporto Caritas Diocesana 2016), e le varie forme di povertà con le diverse emergenze e criticità socio-lavorative-assistenziali, lungi dallo scoraggiarci, rafforzeranno il nostro impegno di umili operai della vigna del Signore, per un Vangelo che sia sempre più annunciato e incarnato nella città dell’uomo, che contribuisca al vero riconoscimento della insopprimibile dignità della persona umana, fatta ad immagine e somiglianza di Dio, ed il primato di questa su tutti i processi che la riguardano non come oggetto passivo, ma come soggetto attivo, nei sistemi di pensiero, nella scienza, nella ricerca e nella tecnica, nella sanità, nell’economia, nella politica, nella famiglia, nella educazione e nella scuola.
Lungi dall’assumere il comportamento degli operai della prima ora del vangelo di oggi, vorremo invece gareggiare nell’ emulazione di propositi e impegni di amore, riscoprendoci tutti come “piccole matite nelle mani del Signore” e trovando in questo, più che nell’effimero plauso umano, la nostra profonda e gioiosa ricompensa.
Vivendo concretamente il nostro essere chiesa locale che cammina per Cristo, con Cristo e in Cristo, saremo condotti dallo Spirito Santo ad approfondire sempre più e sempre meglio la comprensione della sua realtà ed i compiti che ci riguardano come consacrati e battezzati.
La Vergine Maria, virgo ecclesia facta, a cui questa sera affido solennemente l’intera chiesa triventina, arrida a questi nostri propositi, li benedica e ottenga con la Sua materna intercessione quanto la Parola del Figlio Suo –da Lei sempre accolta, meditata e custodita, e in Lei incarnata - ha suscitato nei nostri cuori. Ipsa propitia pervenis. Ave Maria! Amen! Alleluia!
† Vescovo Claudio
Trivento, 23 settembre 2017