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Un nuovo sacerdote di Trivento, Simone
La Cattedrale vestita a festa, come per le grandi occasioni, piena della Chiesa di Trivento, il suo Vescovo Domenico, i suoi preti, gli uomini, le donne e un giovane – Simone – con ancora indosso la stola del diacono servitore. Stasera, il giovane sarà prete, con l’imposizione delle mani e l’unzione dell’olio sacro, alla maniera antica, quella che voleva unti i re, i profeti e i sacerdoti.
Dentro e fuori la Cattedrale c’è tanta gente, con gli abiti leggeri della calda estate. Anche diversi giovani. Si segue il rito nel quale sembra tutto accadere spontaneamente, per caso, invece le cose vengono da lontano, “dall’eternità, prima che fossero fissate le cime dei monti”, prima dei monti che cingono la nostra città. Vengono dalla profondità del mistero di Dio che da sempre ha chiamato ognuno. Anche Simone che fra poco si prostrerà a terra per ridire a Dio l’unica parola vera dell’uomo: Tu sei tutto, io sono nulla.
Il Vangelo parla di “... cose di cui non ancora siete capaci di portare il peso...”. Il peso del mistero nel cuore e sulle spalle di questo giovane ora chiamato per nome, il nome scelto dal padre e dalla madre, lo stesso del primo dei Dodici: Simone. E uguale è la risposta: eccomi. Ci sono. Non mi tiro indietro.
Il Vescovo lo abbraccia col sorriso, perché un nuovo prete è un dono dall’alto e irrobustisce il bastone da pastore del successore di San Casto. Il prete è amico, ma non solo, è anche guida ed esempio lui stesso. Una volta sentii un uomo dire ad un prete: “Come amico mi sei molto simpatico, come prete, però non vali niente, perché non hai mai fatto nulla per convertirmi”.
Ora scende il silenzio, frammisto d’invocazioni. Si chiama il soccorso di santi, tutti i santi, d’ogni tempo e d’ogni città: i patriarchi e i discepoli, i martiri e le vergini, i teologi e le mistiche, i santi vescovi e i santi adolescenti. La cupola è aperta e l’artista Sacchi lo ha ben mostrato, affrescandola con il cielo e il paradiso.
Dopo i canti, le preghiere, le invocazioni, il culmine è nel silenzio e nel gesto antico: le mani imposte sul capo, “senza dire nulla”, dice il libretto del rito. Ho messo anch’io le mani sul capo di Simone , ho sentito la brezza dello Spirito e... ho visto il mondo! Le periferie delle megalopoli asiatiche, i villaggi nelle foreste amazzoniche, le capanne in riva ai fiumi, i grattacieli e poi ancora le case di ghiaccio, di legno e di pietra, dovunque la parola del Vangelo passa di bocca in bocca, di carezza in carezza, di pane in pane.
Ora il Vescovo spalma il crisma sul palmo delle mani di Simone, mani consacrate, appunto. Mani che dovranno consacrare a loro volta il pane e il vino, alzarsi a benedire e ad assolvere. Dopo il rito, occorre togliere quell’olio che può ungere i lini dei paramenti sacerdotali. Prima di lavare le mani si terge con un fazzoletto quelle stille di crisma e lo si ripone. Sarà caro, come la veste bianca del battesimo che una volta si cuciva dentro l’abito da sposa o sull’amitto di un nuovo prete.
E’ lunga la cerimonia di stasera. Già, ci vuol tempo a fare un prete e poi lasciamo che tutti gli altri preti lo abbraccino, uno ad uno. La mamma – e non solo lei – ha gli occhi lucidi; il papà si tiene a stento. Stasera hanno capito perché a fianco del loro figliolo non c’è una sposa, una ragazza in abito bianco. Il celibato cattolico si capisce solo come amore dilatato e vergine, tutto per tutti.
Stasera, all’ora tarda di questo tramonto d’agosto, torno a capire. Insieme a questo giovane prete, ringrazio Dio con le parole di Francesco d’Assisi, mentre le note dell’organo salgono nella volta e si allargano intorno: “Rapisca, ti prego, Signore, l’ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia da tutte le cose, perché io muoia per amor tuo, come Tu moristi per amor dell’amor mio.
Mons. Angelo SceppacercaTrivento, 3 agosto 2015