Riflessione sulla DESIDERIO DESIDERAVI di Papa Francesco | Diocesi di Trivento

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Riflessione sulla DESIDERIO DESIDERAVI di Papa Francesco

Riflessione sulla DESIDERIO DESIDERAVI di Papa Francesco

Innanzitutto una premessa che ci colloca nel cammino ecclesiale...

Si è soliti ripetere in questi tempi che "Chiesa e Sinodo sono sinonimi", parafrasando un'espressione di san Giovanni Crisostomo. La Chiesa è il popolo santo di Dio in cammino nella storia, Sinodo è lo stile del cammino: fare strada insieme. Questo popolo cammina insieme, perché è un corpo animato dallo Spirito Santo. È il corpo di Cristo diffuso nelle sue membra, che siamo noi. E possiamo aggiungere, senza temere di sbagliare: entrambi Chiesa e Sinodo hanno nella liturgia la loro forma, il principio della missione, la fonte della comunione e il sostegno per il cammino.

«È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza...». Le prime parole della Preghiera eucaristica, cuore di ogni Messa, affermano che l'eucaristia è la fonte dove attingere il dono che dà all'esistenza il gusto della vita nuova. La salvezza è la figliolanza divina che Gesù, il Figlio del Padre, ci ha ridonato mediante la sua morte e risurrezione. La celebrazione dei sacramenti e in particolare dell'eucaristia è la sorgente alla quale attingere continuamente tale dono, frutto della Pasqua. La brocca con la quale attingerlo è la forma stessa del rito, che coinvolge tutto il nostro corpo con i nostri sensi e sentimenti. Nella celebrazione si realizza l'incontro con Cristo Gesù. La sua vita in noi, mediante la forza dello Spirito, dà forma al suo corpo ecclesiale e lo invia, ogni volta, a testimoniare la gioia del Vangelo. La domanda, che sorge subito alla luce di queste premesse sicuramente da tutti condivise, è se consideriamo così la liturgia e tutta la nostra esperienza di fede.

... e una constatazione (che riguarda tutti, ma interpella noi innanzitutto).
Ci troviamo immersi in un contesto, che ormai sappiamo non essere più "normalmente cristiano" e che la situazione pandemica ha accelerato e scoperto definitivamente. In questo contesto dove la distanza effettiva e affettiva dalla celebrazione liturgica e da quella eucaristica in particolare, si sta accentuando, dovremmo domandarci se tutto questo non sia accresciuto o non sia stato provocato anche dal nostro modo di annunciare il Vangelo, vivere la prassi sacramentale e dal nostro celebrare, forse poco capace di nutrire un'esperienza spirituale che lasci a Dio di manifestarsi e all'uomo e alla donna di coinvolgersi in modo integrale nella celebrazione, facendosi plasmare da essa.

Nella fedeltà al Concilio e nella comunione della Chiesa.
Non si tratta di ripensare la riforma liturgica che è «irreversibile», come ha affermato papa Francesco con sicurezza e autorità magisteriale, ma di interrogarci su come noi intendiamo e viviamo la liturgia. Si tratta di verificare, a sessant'anni dal Concilio Vaticano II, se la nostra prassi celebrativa sia rispettosa dei criteri che l'hanno ispirata, e se non scoraggi la partecipazione di molti battezzati invece di alimentare un'esperienza autentica e trasfigurante di Chiesa. Le nostre celebrazioni sono esperienze autentiche della Pasqua di Cristo? Che tipo di celebrazioni sono quelle a cui partecipiamo e chiediamo di partecipare? Sono forse liturgie che si svolgono senza alcun aggancio con la vita e con l'attualità? Le nostre assemblee liturgiche sono apatiche e passive, dove l'abitudine porta a dire parole e a porre gesti in modo meccanico, o sono vere esperienze iniziatiche di fede e di vita cristiana? Prevale in esse il fissismo totale che vanifica tutti gli spazi creativi, rinunciando ai necessari adattamenti all'assemblea concreta? Oppure all'estremo opposto una creatività sovversiva e autoreferenziale che non rispetta il rito e l'assemblea, imponendole i gusti personali di chi presiede?
Ed ecco che nell'ultima Lettera apostolica Desiderio desideravi sulla formazione liturgica del popolo di Dio, pubblicata il 29 giugno scorso, papa Francesco, a partire dalle parole del Signore: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,15) ci invita a riscoprire questo dono straordinario, a stupirci di esso senza mai cedere all'abitudine. Pur sapendo di non poter «trattare la questione in modo esaustivo», desidera offrire alcuni spunti di riflessione «per contemplare la bellezza e la verità del celebrare cristiano», dichiarando, sin dalle primissime battute, la liturgia «dimensione fondamentale per la vita della Chiesa» e collocando se stesso e noi nella fedeltà al Concilio e nella comunione della Chiesa.

Certo lo stesso Concilio Vaticano II sostiene che «la sacra liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa» (SC 9), ma afferma che «nondimeno essa è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (SC 10). «La vita spirituale non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia...» (SC 12), tuttavia «la liturgia è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano» (SC 14). E si aggiunge: «perciò i pastori d'anime in tutta la loro attività pastorale devono sforzarsi di ottenere la sua promozione attraverso un'adeguata formazione. Ma poiché non si può sperare di ottenere questo risultato, se gli stessi pastori d'anime non saranno impregnati, loro per primi, dello spirito e della forza della liturgia e se non ne diventeranno maestri, è assolutamente necessario dare il primo posto alla formazione liturgica del clero» (SC 14).

A questa formazione siamo nuovamente esortati. In Desiderio desideravi siamo davanti ad un testo che non si occupa del carattere giuridico della celebrazione, come nel Motu Proprio Traditionis custodes o in altri testi precedenti se pur importanti, né l'affronta principalmente con questa preoccupazione, ma ci invita ad assumere l'atteggiamento contemplativo che meglio si addice alla sua natura.

Le ultime parole della Lettera riassumono tutto il suo tenore: «Abbandoniamo le polemiche per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa, custodiamo la comunione, continuiamo a stupirci per la bellezza della Liturgia. Ci è stata donata la Pasqua, lasciamoci custodire dal desiderio che il Signore continua ad avere di poterla mangiare con noi». (65)

Un'attenzione va subito dichiarata: non sono i riti che vanno contemplati ma la bellezza e la verità del celebrare il mistero pasquale di Cristo che si manifesta mediante le parole e i segni dei riti. Non si tratta di una bellezza estetica fine a se stessa spesso troppo ricercata e nostalgicamente perseguita.
«Con questa lettera vorrei semplicemente invitare tutta la Chiesa a riscoprire, custodire e vivere la verità e la forza della celebrazione cristiana. Vorrei che la bellezza del celebrare cristiano e delle sue necessarie conseguenze nella vita della Chiesa, non venisse deturpata da una superficiale e riduttiva comprensione del suo valore o, ancor peggio, da una sua strumentalizzazione a servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia. La preghiera sacerdotale di Gesù nell'ultima Cena perché tutti siano una cosa sola (Gv 17,21), giudica ogni nostra divisione attorno al Pane spezzato, sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità». (16)

Il papa ci mette in guardia dal rischio di dividerci ancora una volta proprio attorno al sacramento dell'unità. Inoltre, riprendendo Evangelii gaudium (93-97)richiama la «pericolosa tentazione per la vita della Chiesa che è la "mondanità spirituale" alimentata dallo gnosticismo e dal neo-pelagianesimo che sfociano in un soggettivismo esasperato e nella presunzione di guadagnarci la salvezza con le nostre forze (17).

La liturgia invece è la preghiera della Chiesa e la Chiesa è il noi dei cristiani. Il fatto che la preghiera liturgica sia sempre formulata guardando al "noi" spinge a uscire da se stessi, dalla ristrettezza delle proprie visioni individuali anche nella stessa preghiera, per entrare in una preghiera universale, di tutti e per tutti. Nella preghiera liturgica, ciascuno canta, si muove, prega all'unisono e in sintonia con la preghiera di tutti, così che sia un solo corpo, il corpo dell'assemblea radunata, a pregare e a sperimentare la gratuità del dono della salvezza. In quest'ottica, la liturgia, ancora una volta, si presenta come "azione teologale" e la celebrazione resta la sorgente alla quale attingere continuamente la grazia divina, quella "dynamis" che secondo la Scrittura è legata allo Spirito, capace di cambiare e rinnovare l'esistenza personale e comunitaria del credente.

Il papa manifesta la consapevolezza che la liturgia è epifania della Chiesa e afferma:
«Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po' mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium. Per questo – come ho spiegato nella lettera inviata a tutti i Vescovi – ho sentito il dovere di affermare che "i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l'unica espressione della lex orandi del Rito Romano" (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1)». (31) 

«Per questo motivo ho scritto Traditionis Custodes, perché la Chiesa possa elevare, nella varietà delle lingue, una sola e identica preghiera capace di esprimere la sua unità. Questa unità, come già ho scritto, intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano». (61)
È l'unica norma ribadita nel testo. La non accoglienza della riforma e una superficiale comprensione del suo valore teologico ed ecclesiologico, sono per il papa ciò che ci impedisce di crescere nella capacità di vivere in pienezza l'azione liturgica e di stupirci di ciò che nella celebrazione accade. Occorre invece entrare nella celebrazione con lo spirito adeguato, celebrarla bene e connetterla con la vita. Per questo abbiamo ancora e sempre bisogno di una seria e vitale formazione liturgica.

Per un incontro vitale con Cristo (10-13)
In un tempo di auspicata conversione pastorale, la liturgia e in primis l'Eucaristia, sacramento al quale tende tutta l'iniziazione alla vita cristiana, restano il luogo privilegiato in cui sperimentare l'incontro con il Risorto e la comunione ecclesiale.
«Qui sta tutta la potente bellezza della Liturgia. Se la Risurrezione fosse per noi un concetto, un'idea, un pensiero; se il Risorto fosse per noi il ricordo del ricordo di altri, per quanto autorevoli come gli Apostoli, se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui, sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. (10)

La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro. A noi non serve un vago ricordo dell'ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell'Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla potenza della sua Pasqua». (11)
Il nostro primo incontro con la sua Pasqua è l'evento che segna la vita di tutti noi credenti in Cristo: il nostro battesimo. Non è un'adesione mentale al suo pensiero o la sottoscrizione di un codice di comportamento da Lui imposto: è l'immergersi nella sua passione, morte, risurrezione e ascensione. (12)

Occorrono quindi liturgie che non siano un«cerimoniale decorativo o mera somma di leggi e di precetti che regolano il culto» (18, citando Pio XII), ma vere celebrazioni più aperte al mistero di Dio e alla vita, più incarnate nella cultura e più stimolanti per la missione, capaci di creare una mentalità di fede, di avere un impatto sulla storia e di diventare luogo in cui si manifesta la Chiesa.

Come comunità cristiana dobbiamo farci più attenti e accoglienti verso Cristo, che nella liturgia è sempre "il veniente", e verso i fratelli e le sorelle che condividono la sua attesa o attendono di conoscerlo. Occorre riscoprire sempre più la gioia dell'incontro con Cristo e permettere anche agli altri di farne esperienza, riscoprendo la bellezza della fede per offrire risposte al cuore inquieto dell'uomo. Nelle nostre comunità e attorno ad esse, oggi più che mai, c'è il grido (tante volte muto) di chi vive situazioni evidenti di disagio a livello personale, familiare, sociale, non ha più speranza e crede di non credere più a nessuno se non a se stesso o al nulla. C'è anche un profondo bisogno spirituale di fede matura che va risvegliata in chi crede di credere e, sentendosi arrivato, smette di camminare, mentre Qualcuno desidera ancora fare nuova la sua vita; crede di conoscere già il Vangelo e smette di ascoltarlo, mentre Qualcuno vuole ancora parlargli; crede di possedere il Mistero e smette di scrutarlo, mentre Qualcuno vuole ancora rivelarsi per illuminare orizzonti sempre più vasti e profondi. Quel Qualcuno è Cristo! Ai primi e agli altri, a tutti e a ciascuno vogliamo tornare ad annunciare la possibilità di riprendere un cammino, di rimettersi in ascolto, di celebrare l'incontro con Cristo che illumina e, nello Spirito, dà forma cristiana a tutta l'esistenza.

Scrive il papa:
«Non dovremmo avere nemmeno un attimo di riposo sapendo che ancora non tutti hanno ricevuto l'invito alla Cena o che altri lo hanno dimenticato o smarrito nei sentieri contorti della vita degli uomini. Per questo ho detto che "sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l'evangelizzazione del mondo attuale, più che per l'autopreservazione" (Evangelii gaudium, n. 27): perché tutti possano sedersi alla Cena del sacrificio dell'Agnello e vivere di Lui». (5)
Prima della nostra risposta al suo invito – molto prima – c'è il suo desiderio di noi: possiamo anche non esserne consapevoli, ma ogni volta che andiamo a Messa la ragione prima è perché siamo attratti dal suo desiderio di noi. (6)

Forse occorre ridire e ridirsi, più con la prassi che con le parole, che il tempo liturgico è l'«oggi della storia della salvezza» (2-9), tutta ritmata dai grandi interventi di Dio che ci coinvolgono. Nel tempo presente questi sono i sacramenti che celebriamo. Si tratta della replica sul piano sacramentale dei grandi gesti che Dio ha compiuto per la salvezza. Ma sono ancora di più, perché i sacramenti manifestano e attualizzano tutta la pienezza di significato che anche nei gesti più spettacolari dell'AT era solo prefigurata. Non è forse più straordinario del passaggio del Mar Rosso il lavacro del battesimo da cui si rinasce come figli di Dio alla vita nuova in Cristo? Di quest'ultimo quello era solo un'ombra (si vedano le orazioni dopo la III lettura della veglia pasquale). È proprio questa attualità, abitata dal Mistero, ripiena di esso, che permette non solo di conoscere il mistero di Dio, ma di farne esperienza. E ancora una volta questo avviene attraverso la mediazione non solo del linguaggio verbale, ma dell'agire rituale, che si alimenta di quel linguaggio simbolico che dobbiamo tornare a possedere e a trasmettere. Mentre il segno rimanda al significato di qualcosa che rimane esterno ad esso, il simbolo è capace di tenere dentro, insieme (syn-ballein) la realtà altra a cui rimanda.

«Fin da subito la Chiesa è stata consapevole che non si trattava di una rappresentazione, fosse pure sacra, della Cena del Signore: non avrebbe avuto alcun senso e nessuno avrebbe potuto pensare di "mettere in scena" – tanto più sotto gli occhi di Maria, la Madre del Signore – quel momento altissimo della vita del Maestro. Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti». (9)
La messa non è la rappresentazione della Cena, ma è la ripresentazione nostra all'evento della Pasqua. «Il contenuto del Pane spezzato è la croce di Gesù» ed è a quel gesto che il Signore riporta i suoi discepoli «rendendoli capaci di "vedere" il Risorto, di credere alla Risurrezione». (7)
Lo stupore per il mistero pasquale e una seria formazione liturgica
Da qui deriva lo stupore per il mistero pasquale che è parte essenziale dell'atto liturgico. L'eucaristia, cuore e centro di tutta la vita liturgica della Chiesa, è un autentico evento relazionale: il dono di Dio e l'agire dell'uomo si intrecciano affinché si realizzi l'incontro. Perché ciò accada, è necessario che il fare liturgico sia all'altezza del dono che custodisce, perché la bellezza dell'incontro non sia offuscata dalla banalità degli stili con cui ci si dispone.
«La continua riscoperta della bellezza della Liturgia non è la ricerca di un estetismo rituale che si compiace solo nella cura della formalità esteriore di un rito o si appaga di una scrupolosa osservanza rubricale. Ovviamente questa affermazione non vuole in nessun modo approvare l'atteggiamento opposto che confonde la semplicità con una sciatta banalità, l'essenzialità con una ignorante superficialità, la concretezza dell'agire rituale con un esasperato funzionalismo pratico. (22)
Intendiamoci: ogni aspetto del celebrare va curato (spazio, tempo, gesti, parole, oggetti, vesti, canto, musica, ...) e ogni rubrica deve essere osservata: basterebbe questa attenzione per evitare di derubare l'assemblea di ciò che le è dovuto, vale a dire il mistero pasquale celebrato nella modalità rituale che la Chiesa stabilisce. Ma anche se la qualità e la norma dell'azione celebrativa fossero garantite, ciò non sarebbe sufficiente per rendere piena la nostra partecipazione» (23).
Inoltre, dicendo stupore per il mistero pasquale - sostiene il papa - non s'intende in nessun modo quanto sembra si voglia esprimere con la fumosa espressione "senso del mistero", spesso nostalgicamente ricordato tra i presunti capi di imputazione contro la riforma liturgica. Pur conservando una eccedenza che ci trascende e che avrà il suo compimento alla fine dei tempi quando il Signore tornerà, lo stupore fa cogliere l'alterità della presenza di Dio nella vicinanza che la sua incarnazione ha voluto (cfr. 25). Per tanto, la ritualità, correttamente intesa, con i suoi molteplici codici espressivi, resta la via di accesso preferenziale al Mistero.
Per questo è fondamentale e necessaria una seria e vitale formazione liturgica che aiuti tutto il popolo di Dio a recuperare l'eloquenza dei simboli e di azioni rituali trasparenti che non necessitino tanto di spiegazioni quanto di autenticità. «La sfida è molto impegnativa perché l'uomo moderno – non in tutte le culture allo stesso modo – ha perso la capacità di confrontarsi con l'agire simbolico che è tratto essenziale dell'atto liturgico» (27). «Restituiscimi all'infanzia Signore, fa', che ritorni fanciullo, al sapore vero delle cose, al gusto del pane e dell'acqua. Il tempo ha limitato i sensi fino a renderli impassibili. Signore, salvami dall'indifferenza, da questa anonimia di uomo adulto. È il male di cui soffriamo senza averne coscienza» (D.M. Turoldo, il sapore del pane, p. 11).

Basta rileggere le sintesi delle consultazioni sinodali delle Chiese in Italia, dove ci si lamenta di una liturgia lontana, che utilizza parole desuete, gesti e simboli che non parlano più. Per molti la soluzione sarebbe cambiare e riformare ulteriormente la liturgia per adattarla alla vita e alla cultura del momento. Ora – come sostieni il liturgista Tomatis – che il popolo di Dio vada ascoltato con attenzione, e che il suo sensus fidei, possa riguardare anche la liturgia è fuori discussione. Che vi siano problemi di linguaggio nella liturgia è innegabile. Ma la liturgia ha un suo linguaggio proprio che è simbolico, biblico, poetico. E il vero problema resta un recupero di tale linguaggio e della eloquenza di azioni rituali che noi non compiamo più o abbiamo soffocato se non totalmente eliminato (ad esempio: le intenzioni della preghiera dei fedeli, la presentazione dei doni, la fractio panis, i silenzi...). Non si tratta di moltiplicare segni e iniziative nella celebrazione – come spesso erroneamente si è portati a pensare e a fare - ma di vivere quelli che già essa ci offre con verità, intensità e partecipazione sempre più grandi. Più che dire parole, occorre fare gesti e farli bene così che parlino, diano gusto e formino. La liturgia si rivela maestra: nella prassi celebrativa piuttosto che insegnare fa vivere.

Anche il Concilio, dopo aver espresso l'obiettivo della partecipazione di tutti i fedeli al Mistero celebrato, indicava come via maestra per raggiungerlo, non semplicemente la riforma delle forme rituali, ma prima ancora la formazione.
R. Guardini, più volte citato dal papa in questa Lettera e che è stato un grande formatore del '900, non esita ad affermare che senza formazione liturgica, «le riforme nel rito e nel testo non aiutano molto». Nel suo testo sulla formazione liturgica scriveva: «Con ciò si delinea il primo compito del lavoro di formazione liturgica: l'uomo deve diventare nuovamente capace di simboli» (44).
Sempre Guardini, lamentando che l'aspetto visibile, il rito e il simbolo, veniva meno e non era più colto e vissuto in modo immediato, sosteneva che era necessario recuperare il rapporto del visibile con l'invisibile, dove però il problema non era tanto l'invisibile, quanto la carenza del visibile.
L. Bouyer, nel saggio "Il rito e l'uomo" sosteneva che affinché i riti «possano riprendere tutto il loro significato, bisognerà che prima di tutto riprendano la loro realtà».

La formazione alla liturgia e la formazione dalla liturgia
Il papa prosegue offrendo alcuni spunti che aiutino a cogliere due aspetti della formazione: alla liturgia e dalla liturgia. Il primo livello della formazione alla liturgia coinvolge tutto il popolo di Dio e in particolare i ministri ordinati, chiamati a rendere accessibile e attraente il senso profondo della liturgia. Francesco dice che essi:
«svolgono un'azione pastorale di primaria importanza quando prendono per mano i fedeli battezzati per condurli dentro la ripetuta esperienza della Pasqua. (...) È evidente che per poter condurre i fratelli e le sorelle, i ministri che presiedono l'assemblea devono conoscere la strada sia per averla studiata sulla mappa della scienza teologica sia per averla frequentata nella pratica di una esperienza di fede viva, nutrita dalla preghiera, di certo non solo come impegno da assolvere. Nel giorno dell'ordinazione ogni presbitero si sente dire dal vescovo: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». (36)

«Anche l'impostazione dello studio della Liturgia nei seminari deve dare conto della straordinaria capacità che la celebrazione ha in se stessa di offrire una visione organica del sapere teologico. (37)
Oltre allo studio (i seminari) devono anche offrire la possibilità di sperimentare una celebrazione non solo esemplare dal punto di vista rituale, ma autentica, vitale, che permetta di vivere quella vera comunione con Dio alla quale anche il sapere teologico deve tendere». (39)
Conoscere il senso della Messa, ad esempio, è necessario, ma non sufficiente. Occorre entrare nell'esperienza eucaristica con tutti i sensi, la mente e i sentimenti.

«La conoscenza del mistero di Cristo, questione decisiva per la nostra vita, non consiste in una assimilazione mentale di una idea, ma in un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona. (...) La pienezza della nostra formazione è la conformazione a Cristo. Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui». (41).

«Questo coinvolgimento esistenziale accade – in continuità e coerenza con il metodo dell'incarnazione – per via sacramentale. La Liturgia è fatta di cose che sono esattamente l'opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce». (42)

Nella celebrazione, quindi, non si accede ad una conoscenza solo intellettuale, ma si sperimenta la Parola e l'opera di Dio che vede, ascolta, tocca e risana, apre alla speranza, colma l'attesa dell'uomo, lo perdona e rende piena la sua gioia. E tutto questo attraverso la semplicità di ciò che è estremamente umano: parlare, ascoltare, mangiare, bere, vestire, profumare, illuminare, ma che nella liturgia è trasfigurato. Il gesto liturgico è così eloquente nella sua «nobile semplicità» da esprimere l'umano possibile originario, gratuito e luminoso, e anticipare la bellezza divina del Regno del Padre.

Come ha fatto Gesù che ha rivelato Dio attraverso la sua umanissima vita: comunicava con un linguaggio comprensibile da tutti; faceva gesti molto semplici e quotidiani e li rendeva eloquenti, capaci di dire la sua compassione, la prossimità all'umano in tutte le sue condizioni. Verrebbe da chiedersi: cos'altro è la liturgia cristiana se non la parola e il gesto di Cristo nella parola e nel gesto del suo corpo che è la Chiesa?
Occorre che lo stile celebrativo favorisca il coinvolgimento e la partecipazione dell'intero corpo assembleare al Mistero celebrato. I vescovi italiani, nella Presentazione della terza edizione italiana del Messale Romano, affermano: «riscopriamo insieme la bellezza e la forza del celebrare cristiano, impariamo il suo linguaggio - gesti e parole - ...». Lasciamoci plasmare dai gesti e dai santi segni della celebrazione eucaristica. E questo per corrispondere al secondo livello più importante e decisivo della formazione liturgica, che è quello attraverso la liturgia, mediante i suoi simboli, soprattutto quelli legati al corpo e al cosmo, correggendo quell'analfabetismo dell'uomo moderno che «non sa più leggere i simboli, quasi non ne sospetta nemmeno l'esistenza» (44) e aprendoci a un reale coinvolgimento esistenziale con la persona di Cristo e alla conformazione a lui.

Ars celebrandi (48-60)
«Un modo per custodire e per crescere nella comprensione vitale dei simboli della Liturgia è certamente quello di curare l'arte del celebrare». (48) Così negli ultimi numeri, la Lettera apostolica introduce il tema dell'ars celebrandi che «come ogni arte, richiede diverse conoscenze»: la comprensione del dinamismo spirituale della liturgia, in sintonia con l'azione dello Spirito che libera da sensibilità individuali e culturalismi e la conoscenza delle dinamiche e peculiarità del linguaggio simbolico. «L'ars celebrandi non può essere ridotta alla sola osservanza di un apparato rubricale e non può nemmeno essere pensata come una fantasiosa – a volte selvaggia – creatività senza regole. Il rito è per se stesso norma e la norma non è mai fine a se stessa, ma sempre a servizio della realtà più alta che vuole custodire». (48) Quest'arte non si possiede perché si è esperti e persuasivi comunicatori, ma la si apprende mediante «una diligente dedizione alla celebrazione lasciando che sia la celebrazione stessa a trasmetterci la sua arte». (50) A riguardo la Lettera passa in rassegna, se pur brevemente, tutti i gesti e le parole che appartengono all'assemblea, ma prima di concludere rivolge un appello esplicito ai ministri ordinati:

«Se è vero che l'ars celebrandi riguarda tutta l'assemblea che celebra, è altrettanto vero che i ministri ordinati devono avere per essa una particolare cura. Nel visitare le comunità cristiane ho spesso notato che il loro modo di vivere la celebrazione è condizionato – nel bene e, purtroppo, anche nel male – da come il loro parroco presiede l'assemblea. Potremmo dire che vi sono diversi "modelli" di presidenza. Ecco un possibile elenco di atteggiamenti che, pur essendo tra loro opposti, caratterizzano la presidenza in modo certamente inadeguato: rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatizzata; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica. Pur nell'ampiezza di questa gamma, penso che l'inadeguatezza di questi modelli abbia una comune radice: un esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo». (54)

Certamente l'arte del presiedere una celebrazione liturgica, nella quale i riti risplendano per «nobile semplicità», impegna in particolare il celebrante presidente che non può e non deve mai affidarsi all'improvvisazione, ma riguarda anche tutte le altre ministerialità.
Anche Benedetto XVI, parlando dell'arte del celebrare, ricordava che «il primo modo con cui si favorisce la partecipazione del popolo di Dio al rito sacro è la celebrazione adeguata del rito stesso» (Sac. Car. 38).

La preparazione del rito, il modo con cui sono presenti e partecipi tutti i soggetti della celebrazione, deve avere il senso vivissimo che, mentre la Chiesa celebra, è il Signore che invita alla sua mensa, è il mistero di Dio che ci viene incontro. Chi presiede deve apparire servo di Cristo e della Chiesa. Nella celebrazione la sua funzione è di essere segno della presenza del Risorto, senza rimanere nella banalità dei gesti comuni e quotidiani, per non ostacolare la possibilità di vedere oltre, tantomeno cedendo all'esibizionismo capace di sedurre (se-ducere: attrarre a sé) ma non di condurre a Cristo.
Ciò che vale per chi presiede, vale per ogni ministro. «Quale grande esigenza s'impone ad una guida spirituale, vescovo o presbitero, o ad un animatore liturgico che deve educare gli altri con il suo stesso modo di pregare e nessuno ha mai condotto gli altri a una esperienza vitale senza esserci passato per primo. I Padri chiamerebbero tale guida un mistagogo, il cui compito è prendere i fedeli per mano e condurli incontro al Cristo presente nel mistero» (p. Mariano Magrassi).

Per tutti l'augurio che le nostre comunità riscoprano, lungo l'anno liturgico e di domenica in domenica, (sono altre consegne del Concilio, dice il papa) la liturgia quale fonte e forza vitale che dal Cristo si diffonde alle membra del suo Corpo che è la Chiesa.
ome scriveva J. Corbon: «se la liturgia è questo mistero del fiume di vita che scaturisce dal Padre e dall'Agnello, e se essa ci raggiunge coinvolgendoci quando la celebriamo, è proprio perché tutta la vita ne sia irrigata e fecondata. [...] ci troveremo di fronte all'unità completamente nuova che si verifica nella liturgia alla sorgente tra la celebrazione e la vita» (Liturgia alla sorgente, p. 209).

Solo allora la Liturgia sarà cosa viva: perché è vissuta profondamente e fa vivere pienamente, afferra la vita, la plasma, la trasforma.

Così sia. E grazie per l'ascolto.

Don Francesco Martino4 dicembre 2022

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